In questa seconda parte esporrò della mia vita fuori dal
Convento: di come divenni uomo del mondo, e del mio
vivere non più da monaco; e delle condizioni nelle quali a
poco a poco mi venni a trovare; e infine, di come la fortuna
mi venne incontri in quei momenti.
Erano trascorsi alcuni mesi da quando, lasciato il
Monastero, mi ero sistemato presso quel mio parente,
ricco e stimato nella città, che pian piano mi stava inserendo
nella vita del mondo, che avevo quasi dimenticata: mi
aveva insegnato la caccia, e avevo imparato per questo a
cavalcare e a lanciare il cavallo al galoppo, al momento
opportuno quando, recandoci nella sua villa di campagna,
organizzava per me e per gli amici le più entusiasmanti
battute. Avevo anche cominciato a conoscere anche molte
persone importanti e nobili della città: il Cardinale, il
Governatore, il Comandante della Guarnigione, l’Esattore
delle tasse... tutta gente stupida, diceva lo zio, ma anche
troppo importante per non essere tenuta in considerazione;
era sempre una mossa prudente il tenerseli appresso e il
farseli, anche solo esternamente, amici.
E poi, accanto a loro, le nobildonne: alcune sposate,
altre sulla via, altre ancora disponibili a trascorrere con noi
le serate, e a tenerci compagnia la notte... La prima volta
che lo zio me la inviò in camera, quella nobildonna, ebbi
non poca difficoltà a barcamenarmi in quel rapporto che
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ella mostrava come il più eccitante e piacevole, ma che io
non ero ancora pronto a vivere con quella intensità che lei
in quel momento mi stava offrendo.
E così quella notte trascorse tra i dialoghi alla finestra,
gli scambi culturali e gli apprezzamenti sulle altre signore,
sugli invitati che avevano partecipato alla cena di quella
sera, sulla situazione patrimoniale dello zio, sulle vicende
di quella città,... senza mai arrivare all’intimità, né nelle
parole, né nei fatti.
Nel parlare, poi, avevo avuto timore anche di poter svelare,
magari inconsciamente e distrattamente, ciò che ero
stato fino a pochissimo tempo prima; e ciò mi aveva trattenuto
nei comportamenti e nella disponibilità a lei. Ma
dopo questa prima volta, con l’aiuto dei consigli dati dallo
zio, riuscii a superare ogni remora e timore; e a poco a
poco mi feci la fama di un saggiatore di nobildonne; ed
esse, tutte quante, aspiravano a trascorrere le notti con me,
e si ingelosivano le une verso le altre... ero diventato,
insomma, un vero e proprio mattatore, in questo aspetto. E
lo zio mi elogiava; e non poche volte tentò di spingermi a
una relazione definitiva, a sposare una di quelle nobili... la
più ricca – suggeriva – o quella parente del Cardinale, o la
figlia del Governatore... una che avesse insomma potere.
Mi diceva che questo era importante, perché mi rendeva
ancora più nobile e ricco, e la mia stima nella società si
sarebbe accresciuta non poco; aggiungeva poi che non
avrei dovuto per questo rinunciare alle mie avventure con
le altre; no, anzi, ogni relazione diventava ancor più interessante;
ma l’importante era la figura: quella di un uomo
potente, ricco e stimato nella città, e con la ‘sua’ donna.
Ma, nonostante le sue ripetute insistenze, non mi decisi
a fare quello che egli mi chiedeva: non avevo affatto
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piacere a legare, anche se solo esteriormente, la mia vita a
una di quelle!... Certo, per la notte ognuna di loro andava
bene... e anche due o tre assieme... Ma legarmi, da marito
a moglie, a una di loro, no, l’idea non riuscivo per niente
a mandarla giù; nel frattempo, secondo me, le avventure e
le relazioni provvisorie erano la cosa migliore, e mi appagavano
in modo soddisfacente; e poi, ero abbastanza stimato
anche senza moglie.
Le relazioni con il Cardinale erano ottime: quell’essere
obeso e lussurioso, che non aveva niente di spirituale, se
non quell’alito puzzolente che emanava quando si faceva
vicino per dire la sua nel discorso che si stava trattando,
ero riuscito a conoscerlo anche nei suoi lati deboli; e profittando
di questi, me lo ero fatto compagno prezioso nei
problemi da affrontare nel rapporto con la Chiesa, in caso
di vendite o di compere di terreni, negli espropri verso la
gente che occupava quelle terre che dalla Chiesa dovevano
passare in mia proprietà, e che lo zio aveva ora intestate
a me, dandomi piena fiducia.
In questi casi lui, il Cardinale, sapeva rimuovere ogni
ostacolo e risolvere ogni questione che la burocrazia
avrebbe potuto in altra situazione frapporre; e con una
buona cena e un invito a un pomeriggio di gioco d’azzardo
con la scacchiera, tutto veniva ripagato.
Ma non era soltanto questo il suo lato debole, sul quale
potevo contare per accattivarmi le sue attenzioni e i suoi
favori: gli piacevano, come a me, le signore, e in particolare
quelle sposate; aveva i miei stessi gusti... E così, tra
una confidenza e l’altra, ero giunto a inviargli quelle
nobildonne, che tra una ricompensa in denaro e dietro
qualche regalo a parte sua, ci stavano a renderlo un po’
contento con qualche nottata di piacere.
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Circa poi il mio passato, niente con lui era trapelato...Il
Monastero era lontano da lì, e il mio lasciare la vita da
monaco non era avvenuto con scalpore, ma nel nascondimento
e in pochi giorni.
Quasi nessuno, là, si era interessato a quello scandalo,
e chi nei paraggi del Convento ne era venuto a sentore,
certo l’aveva anche presto dimenticato.
Così, il Cardinale mi conosceva come il nipote venuto
da lontano e accolto dallo zio, e non aveva nemmeno chiesto
di saperne di più... e io ero al sicuro, e non avevo più
problemi al riguardo. Certo, dopo averlo conosciuto, mi
era stato ancor più facile dimenticare il Monastero.
Sì, ogni tanto, riaffiorava nella mente il ricordo di quella
vita, di quegli anni trascorsi là; ma era una memoria
sempre più sbiadita e sgradita; e sommersa, quando si
faceva un po’ più insistente, nel vino, nel piacere, nel
gioco, nelle attività che come nobile signore mi appagavano
fino in fondo.
Trattare con quel paffuto e goffo Cardinale mi faceva
ancor più essere sicuro di ciò che avevo fatto, di aver compiuto
la scelta giusta, e non rimpiangevo certo le realtà
vissute un tempo, da monaco; quando il discorso cadeva
sulle realtà della Chiesa, sapevo sempre cavarmela, tra
una battuta di ironia e una fetta di dolce che condividevo
con quell’uomo di Chiesa, che cercando di parlare di problemi
spirituali, non si accorgeva che non faceva altro che
apparire ancor più inadeguato e indegno di quella croce
che portava, e che ogni tanto ripassava con il tovagliolo,
dopo che l’aveva imbrattata di ogni genere di pietanza e
anche di un mezzo bicchiere di vino.
Comunque, ero riuscito a sopportarlo, in fin dei conti;
e in ogni occasione, per me, lui avrebbe sempre fatto il
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possibile, non certo meno. Con il Governatore le cose
erano un po’ diverse: lui, di donne non se ne intendeva un
granchè; la moglie, che amava frequentarmi spesso, mi
aveva confidato che con lui non c’era proprio più niente
da fare nel rapporto sessuale: solo qualche carezza, che lei
gli offriva, più che altro per tenerselo buono e per chiedergli
qualcosa; nulla più.
Al resto, poi, per lei pensavo io. La sua passione era la
caccia; ed era per questo molto legato allo zio, che trovava
per lui il terreno adatto, la selvaggina più bella, e gli
suggeriva il modo migliore per farla arrostire, invitandolo
personalmente in cucina durante la cena.
Il suo carattere altezzoso verso tutti gli altri lo rendeva
alquanto antipatico; da parte mia, oltre al saluto e a qualche
battuta di rito, non riceveva altro.
Avevo in effetti cercato di farmi insegnare da lui qualche
trucco sul modo di condurre il cavallo e di stanare le
lepri, ma di fronte alla sua impazienza e all’alterigia dinnanzi
ai miei sbagli, avevo preferito come maestro lo zio.
Nei momenti più importanti, non mancava mai; e lo zio
mi aveva raccomandato di lasciarlo sfogare, in quelle
occasioni, perché soltanto così poi era più facile farlo bere
in compagnia, e togliergli la facoltà del controllo di sé, per
poter da lui avere quelle informazioni importanti che
necessitavano per un problema e per l’altro.
E così, quando c’era lui, lo si lasciava parlare ad alta
voce, come se tutti lo stessero ascoltando, anche se poi
ognuno continuava con altri il discorso, a bassa voce, e
soltanto lo zio, continuando ad annuire e a farlo bere,
apertamente lo seguiva nei suoi argomenti.
Il Comandante della Guarnigione era certo il più simpatico:
giovane, baldanzoso e molto educato; aveva solo
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un difetto: amava avere relazioni con quelli del suo stesso
sesso. E tra le indiscrezioni, era filtrata anche quella che se
la faceva con i suoi ragazzi alla Guarnigione, e che insegnava
loro, oltre alle tecniche dell’attacco e della difesa,
anche le più svariate maniere di avere rapporti con lui.
Comunque, a parte che nella Guarnigione, pare non avesse
altre relazioni, nemmeno con qualcuno dei nobili e
delle persone di alto rango.
Tra gli aspetti positivi che aveva, c’era certo da riconoscergli
il fatto che lui era informato su tutto, e che più che
un capo dei soldati, appariva sempre come un uomo di
biblioteca e di cultura: in ogni problema o fatto che si
discutesse, sapeva porre la sua opinione in un modo estremamente
interessante e accattivante, al punto che spesso
volgeva l’attenzione dei presenti su di lui, ricevendo alla
fine delle sue esposizioni i maggiori assensi e anche, qualche
volta era accaduto, degli applausi. Il suo aiuto era poi
molto prezioso, specie nei momenti in cui era necessaria
una difesa durante le spedizioni delle merci di valore e il
passaggio di proprietà in nostro favore: quando il vecchio
proprietario faceva delle difficoltà, lui ci mandava una
truppa per far valere i nostri poteri, e avere tutto ciò che
desideravamo.
Inoltre, tra le considerazioni positive nei suoi confronti,
c’era anche il fatto che si accontentava di ricompense
non troppo laute, mentre mostrava meglio gradito da parte
sua un nostro invito a una cena o ad una festa. Infine, tra
le persone che più mi sono rimaste impresse e che apparivano
le più importanti, vorrei ricordare l’Esattore delle
tasse, che era certo un grande strozzino: ogni occasione
per fregare la gente era buona... S’intenda, gente del popolo,
non certo noi, che dopo le prime offerte che gli aveva41
mo fatto, ponendolo anche tra i nostri principali invitati, ci
eravamo sentiti rispondere che avrebbe gradito anche
qualche mancia in denaro, per quei servizi che ci rendeva
alleggerendoci dai doveri pecuniari.
Un vero profittatore, niente affatto simpatico, ma che
tutti dovevano sorbirsi, anche se sempre cercavano di evitarlo;
durante i banchetti, si esibiva con piccoli giochi di
prestigio, che spesso ripeteva, senza ricordare bene quello
che aveva già mostrato e quello che già tutti avevano
visto. Comunque, tra una portata e l’altra, lo si osservava,
soprappensiero, per non dargli l’idea che a nessuno interessava
quella sua presenza tanto scomoda ma preziosa.
Tra le nobildonne, non ve n’era una che si salvasse: tanto
belle alcune, ma sempre e soltanto stupide e superficiali;
belle, sì, nei seni, nei movimenti, nelle gambe e nel corpo;
ma senza fascino, senza intensità, senza capacità di entrare
nel discorso in modo profondo.
Beh, d’altronde, erano lì solo per tenere la facciata dell’educazione
e della femminilità nell’ambiente; e per far
piacere a chiunque, come me, dopo la giornata, amava trascorrere
piacevolmente un po’ di tempo senza pensare a
nient’altro che a lasciarsi invadere dalle emozioni.
Quando poi esse si ritrovavano insieme, parevano proprio
soltanto delle comari pettegole e antipatiche... Certo,
poi, a letto facevano un gran comodo. Intanto lo zio, sentendosi
ormai vecchio, e ponendo una sempre più ampia
fiducia in me, mi aveva a poco a poco affidato quasi tutto
delle sue cose; certo,era pur sempre lui il padrone; ma
dopo avermi introdotto in quella vita, pareva ora volersi
tirare in disparte, e lasciare tutto alla mia gestione, che
esaltava di fronte a tutti come saggia e accorta. In effetti,
ci sapevo fare, in quegli affari e in quegli intrighi; e là
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dove non riuscivo con le buone, sapevo usare anche la
forza: lo zio mi aveva assegnato, per l’occorrenza, anche
le sue guardie del corpo personali: i suoi scugnizzi; che
ora, passati a me, erano disposti a tutto: bastava una mia
parola. Essere nobile e ricco, potente e stimato, mi faceva
sentire sempre più appagato, sempre più sazio; non avevo
certo rimpianti per il passato, se non il fatto di non aver
avuto prima tutta quella fortuna che, anche se giunta solo
tardi, era pur sempre una grande e sproporzionata sorpresa,
che non cessava di farmi esultare.
Vedere la gente implorare ai miei piedi, mi faceva sentire
sempre più grande; sentirmi chiamare ‘signore’ e ‘sua
grazia’ non era certo cosa di poco conto; avere poi altri
nobili a mio servizio, mi faceva sperimentare ancor più la
gioia del potere, dell’avere e del godere.
Che mi mancava?... Spesso, con quel grassone del
Cardinale scherzavo circa il suo Dio e le realtà dello spirito,
che infangavo di ogni genere di beffa; e percepivo che
anche lui, pur salvando la facciata della sua autorità, tentando
di rinnegare per dovere quello che io affermavo per
piacere, non possedeva affatto quell’amore per le realtà
della fede che emanava sempre dalle sue parole, ma che
non si constatava certo dalla sua vita... e dava così l’impressione
di condividere, dentro di sé, profondamente, ciò
che fuori negava apertamente.
In me non esisteva più nulla di quella che un tempo era
la fede; la consideravo negata; e insieme ad essa si era
smorzata anche la presenza di Satana... mentre invece mi
appariva di fronte, sempre più, soltanto una realtà sola: me
stesso.
La mia fortuna arrivò all’apice con la morte dello zio,
che mi aveva nominato suo unico erede.
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Grazie a lui, la mia vita era giunta alle sommità della
gioia e delle realizzazioni; era stata per me una occasione
impensabile e inattesa certamente quella di aver incontrato
lui sulla mia strada.
Io e lo zio eravamo sempre andati d’accordo: lui sapeva
come accontentarmi, e anche dove io volevo arrivare, e
mi precedeva sempre, attendendomi e insegnandomi le vie
migliori a me ancora nascoste, per avere ed ottenere, per
superare i problemi ed affrontare le realtà che si sarebbero
potute poi complicare o oscurare; mi aveva insegnato la
tattica del procedere per essere un nobile sempre più stimato,
affermato e ricco.
Da parte mia, sapevo accontentarlo quasi in tutto; e ciò
che non facevo subito, mi rendevo disponibile a farlo in
seguito; come, ad esempio, il fatto di cercarmi una moglie:
“Ma se non l’hai neppure tu, perché continui a raccomandare
a me di scegliermene una?” gli dicevo sempre, al
riguardo.
Non mi aveva mai risposto; sorrideva e scuoteva il
capo, cercando di farmi comprendere che ciò che lui non
era riuscito a realizzare completamente, io potevo compierlo,
con i sui consigli e i suoi aiuti.
Lungo il corso della malattia che lo aveva costretto a
letto per alcuni mesi, si era sempre tenuto al corrente delle
cose che avvenivano attorno a lui, e non mancava di
richiamarmi là dove andava fatto, e di dare incitamento a
quelle cose che, secondo lui, stavo mettendo in pratica nel
modo migliore, proprio seguendo quelli che erano i suoi
gusti; da parte mia, spesso e volentieri mi recavo da lui e
stavo a discutere delle realtà della sua e della mia vita.
E fu proprio in una di queste occasioni che – mai lo
aveva fatto prima di allora – mi chiese: “Senti: vorrei farti
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ora una domanda; ma ti dico subito che, se non te la senti
di rispondere, cambierò argomento in fretta, e parleremo
delle nostre cose. Quando ti ho accolto qui con me, non
avevo nessun desiderio di sapere la tua risposta; ma ora
che mi sento alla fine della mia vita vorrei, sempre che
anche tu lo desideri, conoscere il motivo che ti ha portato
ad uscire da quel Convento nel quale ti trovavi già da
parecchio... quale fu il motivo...” e mi osservò, ma con uno
sguardo quasi assente, come per significare che se anche io
non avessi risposto a quella sua domanda, la nostra amicizia
sarebbe rimasta tale e quale, e non sarebbe venuta
meno;... e la sua domanda sarebbe stata subito dimenticata,
come se non l’avesse mai nemmeno formulata.
Alla sua richiesta, io rimasi un momento nel silenzio,
non tanto per pensare se dovessi rispondergli o no – in
questo l’avrei subito accontentato – ma soprattutto per
chiarire a me stesso, dopo che tutto quanto si era andato
annebbiando, il ricordo di quei momenti: ...dalla scena
della violenza e del delitto di quella donna... dell’Abate
che si era dichiarato un posseduto... dei monaci in crisi...
del Padre Portinaio che si era suicidato... di quel Fattore,
che per giorni aveva continuato a venire al Convento per
essere consolato, finchè poi si era rassegnato al fatto di
non vedere più la moglie, che le indagini fatte certo avevano
dichiarata dispersa... e della mia profonda crisi, e la
decisione di lasciare il Monastero e di andarmene per
un’altra vita... Tutte queste cose, e le altre vicende che mi
erano venute alla mente in quei momenti, le raccontai allo
zio, prima che lui morisse, esaudendo le sue aspettative al
di là di ciò che aveva richiesto da me.
Dopo avergli confidato tutto quanto, gli avevo anche
domandato: “Ma tu, zio, ci credi a Dio?... Ci credi che esista
questa realtà, questo Dio sopra di noi?... Non ne abbiamo
mai parlato, se non nelle discussioni delle cene e delle
feste, quando discorrevamo delle realtà della Chiesa, dei
religiosi o della fede in generale, di cosa era e di come noi
ritenevamo la religione e le sue manifestazioni... Già, ma
di Dio?... Tu ci credi?...”.
Anche lui allora era rimasto nel silenzio per un po’, lì
sdraiato in quel letto, e fissando il soffitto a cassettoni,
come per riflettere a una domanda alla quale non avrebbe
mai pensato di dover rispondere; poi mi rispose: “Mah...
io me la sono spassata, e ciò che sarà dopo questa mia
morte poco mi importa: la vita me la sono goduta tutta
quanta... Non ho rimorsi, né ho sprecato le occasioni che
mi dava; ho cercato di sfruttarle tutte, per me... e per te:
perché il tuo futuro sia il più possibile sicuro e piacevole...
A Dio, proprio non ci penso!... Di Lui e di quello che succederà,
poco mi importa ora, te lo ripeto.
Tutto ciò che ho voluto, ho fatto!” e volse il capo dall’altro
lato, sul cuscino, come volesse tentare di addormentarsi
ed avesse finito il discorso; io allora mi alzai per
andarmene fuori, ma lui riprese inaspettatamente; e io
rimasi lì, in piedi, ad ascoltarlo.
“...Però, in questi momenti, dentro di me sento come
una piccola fiamma, un... non saprei come dirti... un piccolo
senso di qualcosa che ancora non ho realizzato.
Qualcosa che non riesco a capire e a chiarire che cosa sia,
ma che mi fa porre un interrogativo che mai prima mi ero
posto: ma che cos’è? Cos’è questa piccola realtà che ho
dentro, sconosciuta e misteriosa, ma che non posso né
dimenticare, né eludere dalla mia attenzione? ...E che ora
si fa insistente? ...È come un piccolo e discreto turbamento,
che non mi ossessiona, ma che cerca di farsi ascoltare,
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di farsi desiderare, adesso... E ci sto pensando, in questi
momenti... No, non a Dio, intendiamoci!...- sorrise, come
per rassicurarsi – Ma a ciò che ancora non conosco di me,
e che affiora a poco a poco, in questi momenti... Forse, fra
qualche giorno, ti saprò dire di più...”.
Dopo alcuni giorni morì, senza che quella risposta
appena accennata trovasse possibilità di essere maggiormente
esplicata... E ora, rimaneva tutto quanto in mano
mia. In pochi anni, raggiunsi e superai la notorietà dello
zio, e anche la sua ricchezza: avevo sempre di più, e le
cose migliori, e in tutti gli aspetti della vita; non c’era proprio
alcun motivo di lamentarsi... se non...
C’era sì una cosa, che sempre più emergeva, dopo la
morte dello zio: la mancanza di una persona di fiducia, di
una persona con la quale confidarsi, sulla quale poter contare,
proprio come era stato nel caso dello zio... sul suo
aiuto, sul suo consiglio, sulla sua amicizia.
Ed ora, ad alcuni anni dalla sua morte, riaffiorava quell’interrogativo
riguardo a quella realtà misteriosa e sconosciuta,
che lui aveva sentito e tentato di comunicarmi,
allora: la solitudine... la mancanza di un senso... Ecco
forse che cos’era quella realtà... che anch’io ora cominciavo
a sentire, pur nel pieno dell’età, e attorniato da tutto
quanto potessi volere e desiderare... Tutto, tranne ciò che
era quella ‘fiammella’ - come l’aveva definita lo zio prima
di morire – poteva rientrare nell’esaudimento dei miei
desideri.
Era come una strana e scomoda eredità, che inconsciamente
lo zio mi aveva lasciato: questo suo interrogativo,
al quale egli non era riuscito a dare come risposta esplicita
a me, e che ora mi riguardava, come se anch’io fossi
sempre più vicino alla fine e sentissi l’urgenza di dare una
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risposta. Era come un’insoddisfazione che, appena terminate
le attività e le realtà di riempitivo della giornata,
occupava la mia attenzione facendomi preoccupare... e le
mie emozioni, facendo prevalere la tristezza...e il mio
futuro, vedendolo sottomesso alla non riuscita e alla fine.
Già... la fine di tutto; e la paura di perdere qualcosa di
ciò che avevo e stavo vivendo come realtà bella, mi stava
rovinando la vita.
Cercavo allora di non pensarci, richiamando il più possibile
gli impegni, le attività, i diversivi, gli amici,... Ma
c’era sempre, qua e là, il momento dell’incontro con quella
scomoda parte di me che affiorava proprio dal vivere in
una particolare realtà. Riuscivo sempre meno ad affrontare
con serenità le mie giornate; eppure – mi dicevo – ho
tutto, non mi manca niente!. Ma quel senso di non senso
delle cose che facevo emergeva, ogni volta, come fosse
stato lì in agguato, a farmi constatare la disfatta delle realtà
che stavo costruendo.
Quella fiammella mi torturava più che fosse stato un
fuoco immenso; proprio perché piccola, sentivo che mi
poteva minacciare perché non riuscivo ad afferrarla e
distinguerla, come nel caso di una normale situazione;
questa, era sfuggevole, e non trovavo alcun mezzo per
addomesticarla, per dimenticarla, o anche solo quietarla...
Niente!. Anzi, più tentavo la via dello sfuggirgli, più pareva
che essa mi inseguisse.
Ma... che cos’era?!... Cos’era che rovinava da dentro
questa mia vita che, apparentemente ed esteriormente, era
realizzata e non aveva alcun bisogno d’altro?!... Cos’era
questa piccola pungente realtà?!... E nel frattempo, in quella
situazione di apparente fortuna che non mi abbandonava
affatto, ero divenuto interiormente sempre più triste, e
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anche verso gli altri apparivo sempre più insoddisfatto e
scontroso. Da tempo, poi, avevo abbandonato ogni avventura
amorosa, e non riuscivo nemmeno più a pensare di
recuperarla, nonostante non mancassero, ogni volta, le
signore che mi facevano la corte e che, invano, tentavano
di avvicinarmi.
Anche quando qualcuna di esse riusciva ad avere il
sopravvento, la relazione era vissuta senza alcun entusiasmo,
e sempre più come uno sfogo della mia incapacità ad
affrontare quel mio problema interiore che, ancor di più,
dopo ogni esperienza fatta per dimenticarlo, riemergeva
con intensità ed efficacia.
Le amicizie si erano ridotte, e preferivo rimanere spesso
da solo, e svolgere ogni attività senza l’aiuto di nessuno...
Gli altri, ora, costituivano un fastidio nel vivere quel
mio ‘io’, con il quale mi risultava sempre più difficile convivere.
In quell’atmosfera di interiore solitudine, l’unica
compagnia era, in fin dei conti e per assurdo, proprio quella
‘fiammella’ dentro di me con la quale combattevo, e che
cercavo inutilmente di sconfiggere.
Già: era proprio quella realtà a farmi sentire meno
solo... Ma ripudiavo anche solo da lontano che quella piccola
realtà fosse Dio o qualche cosa che lo riguardasse;
preferivo anch’io, come lo zio, considerare quella realtà
misteriosa come una parte di me che ancora non conoscevo
e che potevo cercare, in fondo, di scoprire e di esplorare...
Ma poi, il pensare che potesse rivelarsi come Dio, mi
faceva subito ritornare sui miei passi: sulle mie preoccupazioni,
sulle mie paure e sulle mie tristezze, che nascoste
dietro l’appariscenza delle feste e gli sfarzi delle cene e
degli intrattenimenti, non facevano che ingigantire tutti i
miei problemi e la mia solitudine.
Percepivo però, in questa confusione, con un barlume
di chiarezza, una cosa soltanto di quella mia vita che si
stava perdendo nei piaceri e nella ricchezza: che era proprio
lì la soluzione, nel poter accogliere e nel lasciar chiarire,
in un modo o in un altro, quella piccola ma tremendamente
ingombrante realtà intanto ancora misteriosa... Ma
come potevano tutte quelle ricchezze e quei piaceri che
per tanto tempo erano stati fonte di gioia... come potevano,
senza che io me ne fossi accorto, essersi a poco a poco
me sempre più intensamente tramutati nella fonte della
mia insoddisfazione?!... Era una domanda che non faceva
altro che ingigantire le mie preoccupazioni e il timore che
proprio l’aumentare di quelle già abbondanti fortune era in
effetti la causa di quel non senso.
E così, iniziai a donare qua e là un po’ della mia fortuna;
non ci avrei rimesso ugualmente più di tanto, anche
perché chi ne veniva beneficiato non avrebbe esitato a
ricambiare con altri favori... E poi, in rapporto a tutta quella
abbondanza, che avrebbe potuto significare un po’ di
denaro o di terreno regalato qua e là?.
Ma quel tentativo di risolvere la mia crescente insoddisfazione
non ebbe molto esito; comprendevo che se anche
avessi dato via tutto quanto: gli averi, gli onori e i terreni,
con tutte le cose annesse, non avrei fatto altro che togliere
l’esterno del problema; mentre dentro, in me, non avrei
compiuto che un gesto inutile.
Occorreva proprio che io affrontassi me stesso, il mio
‘io’: quella fiamma piccola e stimolante che non la smetteva
di tentarmi ad un confronto pieno e totale, per una
lotta diretta... che però sempre temevo, come il possibile
primo passo verso la mia disfatta.
E per questo esitavo, rimandavo, continuavo ad evadere
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il problema che la vita mi poneva, invece di affrontarlo.
...Ma come poteva quella fortuna sulla quale avevo contato
fino ad allora, essere ora diventata una trappola nella
quale mi sentivo sempre più di cadere, quasi come in un
pozzo senza fondo? E dov’ era il fondo della mia vita, in
quel momento?. Quella piccola realtà sembrava attendermi
al varco, pazientemente, ma nello stesso tempo sempre
più insistentemente; e io temevo, ma nello stesso tempo
vedevo che, in effetti, soltanto quell’appiglio mi rimaneva
di fronte come autenticità, mentre tutto quanto il resto, pur
restando nella facciata della mia vita, si sgretolava con la
minima facilità.
Non volevo... non osavo... non mi decidevo a chiarire a
me stesso tutto quanto... ora temevo... ora desideravo...
ora ritrattavo; intanto, tutto peggiorava, e il vuoto e la solitudine
in me prendevano sempre più il posto del senso e
della gioia della vita, che invece mi si allontanavano, giorno
dopo giorno.
Ero sempre più tentato, da un lato, di cercare un aiuto
là dove, un tempo, lo avevo trovato concretamente; ma il
temere di sentirmi poi sconfitto in ciò che avevo fino ad
allora costruito, in ciò che nel frattempo ero diventato e in
quello che ancora, al momento, la fortuna mi andava
recando, mi faceva tornare subito indietro, e rinnegare il
mio tentativo.
Quel Dio, rinnegato da tempo, e sommerso dalle realtà
prodotte da me stesso, ora che io ero in dubbio su ciò che
veramente mi trovavo ad essere in quel momento, si presentava
sempre più spesso da lontano, nelle mie fantasie,
facendomi impaurire e raggelare al solo pensiero che un
giorno, forse, avrebbe potuto prendere il sopravvento ed
avere così la sua rivincita.
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Già lo avevo rinnegato, e avevo considerato la decisione
come una realtà definitiva; ora, il riprenderlo in considerazione,
mi avrebbe costretto a rinnegare tutto di me, e
con me tutte le mie cose, i miei progetti, e tutto... Già, quel
tutto che, col procedere dei giorni, stava apparendo sempre
più chiaramente non valere a nulla per ottenere un
senso per la mia esistenza.
La fortuna e la solitudine continuavano sempre più ad
entrare a far parte della mia vita, procedendo insieme, una
accanto all’altra... quale delle due avrebbe prevalso, alla
fine? ...Finchè, un giorno, mi giunse un corriere da lontano,
recando un messaggio personale e urgente, così aveva
riferito ai miei domestici.
Lo avevano allora fatto passare, e io lo avevo accolto
con garbo, secondo l’usanza ormai monotona della buona
educazione, che si confaceva a tutti quelli della mia
stessa condizione. Pensavo fosse un inviato di un qualche
nobile o alto funzionario del governo; ma quando si presentò
rimasi allibito: “Vengo da parte dell’Abate del
Monastero...”.
A quelle parole, ebbi un profondo fremito di emozione;
e non distinguevo se fosse per una paura che emergeva
incontrollata, o per un’inattesa ed insperata ancora di salvezza
che speravo mi venisse lanciata da quel luogo nel
quale stava ancora, se pur inconsciamente, parte della mia
vita. “...Come procede la vita al Monastero? – chiesi, cercando
di mostrare uno scarso interesse, per tentare di
nascondere così la mia reazione – Quale novità mi recate?”.
“Eccellentissimo signore, la prego di comprendere il
mio tacere al riguardo, ma mi è stato espressamente
ingiunto di non parlare altro che di questa – e mostrò una
carta pergamenata – che le devo consegnare di persona;
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soltanto questa è la mia missione, alla quale mi è stato raccomandato
di attenermi” e porse quel documento che
pareva dover contenere un messaggio veramente importante,
stando al comportamento del consegnatario.
Prima di aprirlo, congedai il messaggero e lo affidai al
domestico ordinandogli di preparargli una lauta cena e una
stanza comoda dove passare quella notte; il servo annuì,
mentre il corriere ringraziò e si accomiatò. “Vediamo,
vediamo...che cosa mi manda a dire quell’Abate...” e mentre
toglievo i sigilli a quella pergamena, ripensavo velocemente
a tutte le vicende che mi avevano condotto fino a
quel punto.
Quell’Abate che avevo ormai dimenticato, che cosa
voleva mandarmi a dire di tanto importante, e che avrebbe
dovuto richiedere da parte mia una attenzione?... Che
fossero sorti dei guai per quella vicenda...?.
“Dunque...- e iniziai a leggere ad alta voce, come per
sentire meglio ciò che il messaggio annunciava –
Eccellentissimo signore, anche se lei vive ora molto lontano
da qui, e forse dopo tutti questi anni non ricorda volentieri
la situazione trascorsa da noi, noi, a nome di tutti i
monaci, la preghiamo e supplichiamo intensamente e profondamente,
di raggiungerci presso il Monastero il più
presto possibile, essendosi creata una situazione che
richiede da parte sua un assenso o un rifiuto.
Contiamo pertanto sulla sua sensibilità nel non lasciar
decorrere ulteriormente il tempo a disposizione per lei e
per noi, e di giungere al più presto. Siamo certi che non
mancherà.
Porgiamo i migliori ossequi, anche a nome di tutti i
monaci. ...E questa, è la firma dell’Abate...”. Ma che
aveva di tanto importante ed urgente quell’Abate – mi
dissi – da pensare di poter convincermi a scomodarmi da
qui?. Questa fu la prima ed istintiva domanda che mi posi;
poi, feci richiamare il messo, gli lessi il messaggio e tentai
di farmi spiegare la situazione che in quelle parole
restava ancora celata.
Che cosa era successo veramente? E perché avrei dovuto
andare fin là... Intraprendendo almeno due settimane di
viaggio, e senza sapere ancora il perché di preciso?
E solo fidandomi di quella generica richiesta che veniva
definita urgente?. Ma il corriere non sapeva proprio
cosa rispondere; o fingeva, o non conosceva veramente
come stavano le cose; feci ancora qualche tentativo per
strappargli una rivelazione, ma nulla trapelava dalle sue
parole; allora, lo rimandai, e mi sedetti nella poltrona a
pensare a cosa potesse essere accaduto di tanto importante
là, e che mi riguardasse di persona, e poi a distanza di
tanti anni e di spazio... No, non poteva essere quella faccenda
del delitto ad essere riemersa: si sarebbe espresso in
modo diverso l’Abate, e non avrebbe mandato a dirmi le
cose in quel modo...
No, non era certo quella faccenda a coinvolgermi e a
ritenere importante e addirittura positiva la mia presenza!...
E allora, che altro?! Lui lo sapeva che non avrei più
avuto a che fare con loro, e che la mia vita adesso era questa...
che cosa cercava, ora, da me?!. Pensai allora al fatto
che il Convento avesse bisogno di un aiuto economico: era
successo anche dove qui dove mi trovavo, che ogni tanto
si presentasse qualche religioso a mendicare per i bisogni
dei poveri o della propria comunità... e avevo anche dato
qualche cosa, soltanto per togliermelo di torno e non dover
essere oltremodo infastidito; ecco, forse era proprio questo
che volevano!...
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No! Ripensandoci un attimo, nemmeno questo poteva
rivelarsi il vero motivo di quella missiva: c’era un linguaggio
troppo misterioso, e che chiamava in causa me
come fossi una persona essenziale non certo per una elemosina
o una donazione; e poi, se fosse stato veramente
per quella causa, avrebbero mandato qualcuno esponendo
il problema, certo non mi avrebbero chiesto con quella
urgenza e necessità che traspariva da quelle poche parole,
di intervenire al più presto, e di persona...
No, neppure questo era il motivo, no sicuramente ...E
che altro, allora?!... Ero un po’ infastidito, da un lato, di
fronte a quell’urgente richiesta che mi stava obbligando a
prendere posizione pro o contro quell’invito; ma dall’altro
lato, intuivo che tutto ciò facesse ancora parte di quella
fortuna che fino ad allora mi aveva assistito, e che pareva
ora additarmi nel seguire quelle parole la prossima mossa,
portandomi verso la soluzione del problema; che io cercavo
di negare ancora, ma che, in effetti, dovevo riconoscere
ancora presente in me, e sempre più impossibile da
parte mia da poter dimenticare. Era allora ancora un
momento della fortuna, questo?...
Era il passo da fare per trovare la mia soluzione, accondiscendendo
ora a quella richiesta che veniva da un lontano
passato e da un luogo faticosamente raggiungibile?... E
se fosse stata invece la mossa che mi avrebbe portato alla
disfatta, alla crisi totale della mia vita, alla perdita del
senso della gioia e della serenità in modo deciso e definitivo?!...
Mi si chiedeva dunque di rischiare, fondandomi
soltanto su un fatto: la mia fiducia in quelle parole che mi
erano state inviate da quell’Abate che quasi nemmeno più
ricordavo, e che avrei potuto fino a poco prima di quel
messaggio ritenere ormai morto e sepolto.
Rieccolo, invece, lì presente, e a chiedermi quasi l’impossibile:
fidarmi di quelle poche parole, e decidermi di
andare fino là!... Ma, a quel punto, non c’era altra soluzione
che l’andare al cuore del problema... e rischiare: sì...
sarei andato!... Anche soltanto – mi dicevo – per rivedere
quei luoghi dove ho trascorso tanti anni della mia vita:
sarà una passeggiata che mi distrarrà un po’ anche da tutti
questi miei problemi!. Convocai i domestici e i miei aiutanti,
e ordinai loro di predisporre le cose al più presto, per
intraprendere quel viaggio. E dopo poche ore, mentre il
messaggero si era già avviato avanti per annunciare al
Monastero il mio prossimo arrivo, mi misi in viaggio con
tutti i miei bagagli e con gli uomini del seguito, verso
quella meta che, fino a poco tempo prima, mai avrei
immaginato di avere tanto a cuore.
La fortuna – mi ripetevo – mi assisterà; e durante questo
viaggio avrò certamente anche la possibilità di concludere
qualche nuovo affare... ed aumentare le mie conoscenze
di altri luoghi e di nuove persone... sì, sì: la fortuna
mi assisterà!...
Ma quei pensieri non riuscivano a nascondere le mie
vere intenzioni: di poter scoprire, alla fin fine, che cosa si
celasse dietro quel messaggio, che io avevo ormai accolto
dentro di me: proprio fino là, dove quella ‘fiammella’ si
stava già alimentando, dandomi motivo di rinnovata speranza
e una sicurezza inaspettata, della quale mi andavo
rendendo conto, ora, passo dopo passo, lungo il viaggio
verso quel Convento.